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Smart working durante la pandemia e lavoro da remoto
L’emergenza ha portato tante realtà a ricorrere a modalità di lavoro mai provate prima, permettendo ai dipendenti di lavorare da casa; tutto ciò ha però messo in evidenza la mancanza di preparazione su vari livelli di molte aziende nell’adozione di forme di lavoro da remoto . Il binomio “lavoro agile e coronavirus” è senza dubbio rappresentativo di enormi progressi in termini di digitalizzazione, ma anche di importanti sfide per imprese, pubblica amministrazione, dipendenti, ecc. Per ricostruire la situazione che ha portato a un’accelerazione dello smart working durante la pandemia, comprendendone sfide da affrontare e possibilità da sfruttare, anche in futuro, è possibile partire dall’analisi della situazione in Italia.
Lavoro da remoto e smart working durante la pandemia: il panorama italiano
Prima di procedere con la lettura di dati relativi al lavoro da remoto e allo smart working durante la pandemia occorre innanzitutto fare una precisazione che riguarda le differenze terminologiche e concettuali tra le espressioni “lavoro da remoto” e “lavoro agile“: soprattutto nei primi mesi della pandemia esse venivano spesso usate come sinonimi, nonostante indichino modalità di lavoro ben diverse, perché il lavoro da remoto (o home working) prevede lo svolgimento delle proprie mansioni da casa, mentre invece lo smart working presuppone una modalità di lavoro molto più flessibile, che conferisce maggiore autonomia al dipendente su se svolgere il lavoro da casa, in sede o in qualsiasi altro luogo, mentre lavora per obiettivi e senza particolari vincoli di orario. Più di recente, così, un’analisi accurata dello scenario contemporaneo ha portato riviste, giornali ed esperti a sottolineare le differenze tra le due modalità di lavoro in maniera molto più marcata.
A novembre 2020 l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ha evidenziato che «durante la fase più acuta dell’emergenza, lo smart working ha coinvolto il 97% delle grandi imprese, il 94% delle pubbliche amministrazioni italiane e il 58% delle PMI, per un totale di 6,58 milioni di lavoratori agili, circa un terzo dei lavoratori dipendenti italiani, oltre dieci volte più dei 570mila censiti nel 2019». La fine del lockdown ha invece portato a nuovi cambiamenti, con le aziende e la pubblica amministrazione che hanno ricominciato ad aprire gli uffici, promuovendo un’integrazione tra lavoro in ufficio e lavoro da remoto: così, secondo i dati dell’Osservatorio, a settembre «il numero complessivo di smart worker è sceso a quota 5,06 milioni». Nonostante nel report vengano spesso utilizzate le espressioni “smart working” e “lavoratori agili”, l’Osservatorio ci tiene a precisare che «le modalità di lavoro sperimentate durante l’emergenza sono state per certi versi più vicine al telelavoro [modalità che prevede che il lavoro venga svolto in una sede precisa concordata con il datore di lavoro, ndr] che a un vero smart working». Stando a diversi pareri di esperti o ricerche, infatti, per buona parte dei casi in Italia il nuovo approccio al lavoro, spinto dalla pandemia, non può essere collegato al concetto di lavoro agile, specialmente se si tiene conto di tutti i dipendenti che, una volta terminata la crisi sanitaria, non avranno più la possibilità di scegliere se svolgere le proprie mansioni da casa o in altri luoghi, dovendo svolgerli soltanto presso la sede di lavoro. Nel corso del suo intervento al RomaXmasCamp 2020 Gianluigi Cogo, project manager della Regione Veneto, ha parlato dello smart working durante la pandemia: come ha spiegato, in molti casi i lavoratori sono stati costretti a lavorare da casa senza che ci fossero spesso le condizioni, le attrezzature e persino le competenze necessarie per poterlo fare nel migliore dei modi e, dunque, non si può così parlare di un vero e proprio “lavoro smart” in questi casi.
LAVORO DA REMOTO E SMART WORKING DURANTE LA PANDEMIA: I benefici per gli italiani
Per quanto possano esserci delle problematiche in parte già analizzate e che successivamente verranno riprese, non è possibile trascurare i benefici che la possibilità di lavorare da casa ha generato per aziende e dipendenti, offrendo innanzitutto la possibilità di portare avanti le proprie attività in un momento storico in cui senza le tecnologie a disposizione sarebbe stato impossibile. Secondo l’Osservatorio vi sarebbero altri fattori positivi: nel 71% delle grandi imprese italiane sarebbero migliorate le competenze digitali dei dipendenti; nel 65% di esse sarebbero stati sfatati dei pregiudizi sullo smart working; si sarebbe verificato, inoltre, un ripensamento dei processi aziendali nel 59% delle grandi imprese e nel 42% delle PA. Una ricerca condotta dal Centro di Ateneo – Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, basata sulla risposta di 446 individui a due questionari somministrati a marzo e a luglio 2020, si è focalizzata invece sulla risposta dei lavoratori. Stando a questi dati sembra che molti di essi percepiscano questa modalità di lavoro come positiva: più di un lavoratore su due sarebbe molto contento o del tutto contento di lavorare da casa. Tra i lavoratori soddisfatti di lavorare da casa il 79,2% presenta come principale vantaggio il risparmio di tempo e costi di viaggi; il 64,5% mette in risalto il senso di sicurezza rispetto alla possibilità di contagio; quasi il 60% afferma invece di riuscire a gestire meglio gli impegni della vita privata.
Fonte: Centro di Ateneo – Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
Un nuovo approccio al lavoro dettato dall’emergenza: sfide e criticità
Le difficoltà nell’adattarsi a questo nuovo approccio al lavoro, specialmente per chi si è ritrovato a doverlo fare per la prima volta, come già sottolineato in precedenza, ci sono. La pandemia ha d’altra parte accelerato in maniera improvvisa e forzata un processo di digitalizzazione che per molte aziende sarebbe probabilmente avvenuto successivamente. La necessità urgente di richiedere ai dipendenti di svolgere le proprie mansioni da casa ha generato delle problematiche di diverso tipo.
Innanzitutto, alcuni problemi riguardano la mancanza di strumenti adatti a svolgere il proprio lavoro da casa: come riportano i dati dell’Osservatorio, il 69% delle grandi aziende ha dovuto aumentare la dotazione di computer portatili e di altri strumenti hardware; il 65% ha dovuto aumentare la dotazione di strumenti per poter accedere da remoto agli applicativi aziendali in tutta sicurezza; il 45% ha dovuto invece aumentare quella di strumenti per la collaborazione e la comunicazione. A ciò si aggiungono alcuni dati che riguardano PA e PMI: tre PA su quattro hanno incoraggiato i dipendenti a usare i dispositivi personali, mentre il 50% delle PMI non ha potuto operare da remoto. Sebbene questo sia il dato italiano, occorre sottolineare che situazioni simili si sono verificate anche in altri paesi: secondo una ricerca di Ricoh sul lavoro da remoto basata sull’opinione di 632 lavoratori di medie imprese europee, il 27% del campione non disporrebbe – nel momento in cui è stata effettuata l’indagine – degli strumenti necessari per collaborare adeguatamente da remoto e il 30% dei lavoratori intervistati non riuscirebbe a comunicare con il reparto IT per ottenere supporto tecnologico in caso di problemi, a causa dell’elevato numero di richieste.
Ritornando al contesto italiano, un altro aspetto importante riguarda work-life balance e repentino bisogno di imparare a conciliare lavoro e faccende domestiche (principalmente per i genitori con figli minorenni, la cui situazione è stata resa ancor più difficile dalla chiusura di scuole e asili nido). La ricerca condotta dal Centro di Ateneo – Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ha fatto luce anche su questo tema e sull’impatto di questi cambiamenti sul benessere dei dipendenti. Tra i principali svantaggi riportati dagli intervistati è possibile menzionare la mancanza di momenti di pausa nella giornata lavorativa (nel 53,4% dei casi) e lo stress correlato all’uso della tecnologia (per il 51% degli intervistati). Infine, lo studio ha rivelato che un lavoratore su due che lavora da casa percepisce di lavorare più del solito.
Fonte: Centro di Ateneo – Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
Gianluigi Cogo ha posto in evidenza altre problematiche, come quelle che riguardano la mancata preparazione di manager o comunque di individui con un ruolo dirigenziale nell’affrontare i cambiamenti: «il primo elemento che nel remote working ha minato il work-life balance è stato che chi ci assegnava o ci chiedeva degli elementi di condivisione, piuttosto che task di un certo tipo, dava tempi o pretendeva risultati che, secondo me, prima della pandemia, non erano assolutamente pretesi. Questo è un elemento molto critico». Come ha affermato Nicola Uva, strategy e marketing director di ADP Employer Services Italia, in un’intervista al quotidiano la Repubblica: «Oggi il problema in Italia non è delle persone, ma dei manager e capi-ufficio che non sono pronti o non sono capaci di affrontare questo cambiamento, non essendo in grado di pianificare e delegare, ma solo di controllare visibilmente la presenza». In Italia, dunque, l’unico tipo di controllo esistente sembra essere quello relativo alle attività svolte al computer (tramite software ad hoc e sistemi di timbratura online), come ha spiegato l’esperto. Questo tipo di monitoraggio rivela che molte aziende italiane non sono ancora entrate nell’ottica di quello che può davvero essere definito “smart working”, mantenendo ancora un approccio al lavoro molto più vicino al lavoro da remoto e al telelavoro.
Alcune soluzioni per affrontare le sfide
Partendo dall’ultima problematica, Nicola Uva ha ricordato che «bisogna passare da una logica del controllo alla logica dell’obiettivo. Se non si fa lo sforzo di implementare un cambio organizzativo è inutile investire in strumenti di controllo, è meglio tornare al lavoro in ufficio. Non è facile realizzare questo passaggio: come criteri di valutazione bisogna misurare la soddisfazione del cliente, o il rispetto del contratto, senza controllare i tempi, poiché l’importante è raggiungere l’obiettivo e rispettare le ore lavorative».
Dato che comunque molte aziende si sono finalmente aperte alla possibilità di fare lavoro da remoto o smart working durante la pandemia e che tanti dipendenti hanno già acquisito delle competenze specifiche, frutto del bisogno di adattarsi a un nuovo modo di lavorare, come fatto notare da Gianluigi Cogo è importante cercare di rafforzare e di incrementare queste skill, in modo da poter superare quegli ostacoli che ancora riguardano la produttività e il benessere degli individui. L’esperto ha fatto riferimento innanzitutto al miglioramento delle competenze di tipo verticale, quindi relative per esempio all’utilizzo di strumenti digitali, hardware, software, piattaforme e app che consentono di ottimizzare il lavoro da remoto. A questo proposito, la Commissione Europea ha lanciato a luglio 2020 le nuove linee guida relative a ciò che è necessario per essere «competenti a livello digitale», presentando dei case study di aziende che già stanno utilizzando questo framework (noto come “DigComp at Work“) per ottimizzare le skill della propria forza lavoro, fornendo consigli su come farlo in maniera ottimale e strategica.
Foto e slide di Gianluigi Cogo nel corso del suo intervento al Roma XmasCamp 2020. Fonte: Roma XmasCamp 2020
Ugualmente importanti sono però le skill di tipo orizzontale, specialmente se si pensa alle difficoltà collegate alla gestione del personale a distanza. Come ha sottolineato Gianluigi Cogo «un manager dovrà imparare a relazionarsi e a fare team building con soggetti che operano in luoghi diversi e con strumenti diversi e quindi se non ha abilità di tipo trasversale, quindi se non sa essere un buon comunicatore, se non sa dare fiducia, se non sa dare responsabilità, se non sa essere empatico, se non ha delle capacità relazionali» difficilmente potrà garantire una gestione ottimale del personale e ottimizzare la produttività.
Un ultimo aspetto che non va trascurato riguarda la sicurezza informatica: l’aumento di lavoro da remoto e smart working durante la pandemia è stato anche accompagnato dall’aumento dei rischi informatici per le imprese, come reso evidente da un’indagine, non riferita soltanto all’Italia ma al contesto internazionale, condotta da Jupiter Networks (azienda specializzata in sicurezza informatica) su mille professionisti IT senior specializzati in reti e sicurezza, appartenenti a vari settori. Il 97% degli intervistati (88% in Italia) ha ammesso di dover affrontare delle sfide continue per garantire livelli di sicurezza ottimali alle reti delle proprie aziende. È essenziale perciò che le aziende comprendano l’importanza di investire in questo ambito, facendo ricorso per esempio a sistemi per l’accesso ai dati aziendali da remoto in piena sicurezza (come le VPN).
Come sarà il lavoro dopo la pandemia?
L’aumento del lavoro da remoto e dello smart working durante la pandemia ha cambiato la percezione che molte aziende avevano di queste modalità di lavoro e, secondo quanto riportato dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, una volta finita l’emergenza potrebbero esserci circa 5,35 milioni di persone a lavorare almeno in parte da remoto. Nonostante le tante sfide e gli ostacoli, molte voci puntano nella stessa direzione: come ha affermato Gianluigi Cogo, da quando la pandemia è iniziata sono stati tanti gli italiani che si sono dovuti adeguare a «una modalità ibrida di lavoro che probabilmente diventerà la nuova normalità, non ci sarà più un ritorno a tutti in ufficio e pochi in modalità agile».
Una previsione simile emerge anche dalla ricerca di Randstad “Lavoro e studio ‘intelligenti’: la trasformazione possibile“. Come si legge nel comunicato stampa di lancio della ricerca, Daniele Fano, coordinatore del comitato scientifico di Randstad Research, ha affermato che «il futuro dello studio e del lavoro sarà “integrato“, un combinato di attività svolte a distanza con supporti digitali e con piena flessibilità di orario e di altre in presenza che richiedono condivisione e interazione tra persone».
È importante, dunque, che le aziende e le PA si impegnino per riuscire a cogliere al massimo il potenziale di questo approccio ibrido al lavoro, diviso tra casa (o un altro luogo) e la sede di lavoro, garantendo ai dipendenti le condizioni ottimali per poter essere produttivi e per trovare il giusto equilibrio tra vita privata e vita professionale.
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