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Inquinamento digitale: cos’è e come evitarlo
Sarebbe al quarto posto tra i “luoghi” responsabili di più emissioni di anidride carbonica, secondo delle stime del Global Carbon Project, dopo grandi potenze industriali come Cina, Stati Uniti e India e la cattiva notizia è che il boom di traffico Internet registrato fin dalle prime settimane di pandemia e il corposo aumento del tempo trascorso in Rete durante tutto lo scorso anno e i primi mesi del 2021 rischiano di rendere il web ancora più inquinante. L’attenzione verso il (vasto) tema dell’inquinamento digitale non è però nuova: da tempo è noto che quello che succede in un minuto di Internet può avere effetti deleteri per l’ambiente, se si considera che una sola ricerca sui motori di ricerca produce sette grammi di anidride carbonica – per avere un termine di paragone, circa la metà di quelli prodotti dalla preparazione di una bustina di tè – e che una singola pagina web con contenuti multimediali di grammi di CO2 ne produce 0.2.
Sono stime, queste ultime, fornite da Karma Metrix, un progetto di AvantGrade.com che sfrutta l’intelligenza artificiale per misurare l’impatto energetico di siti e pagine web e aiuta gli sviluppatori ad adottare accorgimenti che ne aumentino l’efficienza e riducano la quantità di anidride carbonica emessa ogni volta che un utente provi a raggiungere una pagina o ad accedere a una risorsa online.
L’inquinamento digitale non dipende solo da centri di elaborazione dati e farm delle big tech
È vero infatti che il grosso dell’inquinamento digitale proviene dai data center e dalle farm dove le big tech immagazzinano dati, gestiscono processi operativi indispensabili ai propri servizi e via di questo passo. Nel tempo sono nati, così, progetti come il CodeCarbon del Mila che, a seconda della parte del mondo in cui gli stessi si trovano o di quali tipologie di fonti energetiche vengono prevalentemente utilizzate (se di origine fossile, rinnovabili, ecc.), riescono a misurarne l’impatto ambientale e non solo in termini di carbon footprint.
Soprattutto, però, sono state le stesse aziende tech a reinvestire negli anni in progetti e iniziative di corporate social responsibility “verdi” che avevano l’obiettivo, tramite riforestazioni e non solo, di provare a compensare l’impatto ambientale delle proprie attività. Quegli stessi progetti e iniziative che oggi rendono possibile, per esempio, che Google si dica «carbon neutral dal 2007» e punti all’obiettivo zero emissioni entro il 2030.
Se le big company del digitale sono chiamate insomma a fronteggiare il rischio inquinamento digitale da impegni assunti con decisori politici e istituzioni, ci sono più piccoli accorgimenti che chiunque progetti un sito web può adottare perché lo stesso risulti efficiente in termini energetici e di emissioni di CO2.
Dai ministeri e dalle associazioni dedite alla tutela dell’ambiente ai grandi brand: quanto inquinano i siti web
La cattiva notizia è che la maggior parte dei siti – anche istituzionali, di grandi brand o persino di soggetti che operano nel campo della tutela dell’ambiente – risulta ancora poco “virtuosa” in questo senso. Lo stesso Karma Metrix è stato utilizzato, infatti, da AvantGrade.com come una sorta di «misuratore del web CO2», per stimare quanta anidre carbonica immettono nell’atmosfera alcuni siti web campione, in diversi settori.
Uno dei risultati è proprio che solo il sito web del Ministero dell’ambiente e quello del WWF producono insieme oltre 3,6 tonnellate di anidride carbonica all’anno. Certo, il dicastero italiano sembra fare meglio dei propri analoghi europei: se è vero, infatti, che il suo sito ufficiale produce in un anno CO2 per almeno il 30% in più rispetto alle emissioni medie di un sito web, e cioè un totale di circa 250 chili, è vero anche che il sito del ministero dell’ambiente francese ne produce l’82% e quello tedesco ben il 137% in più, approssimativamente la stessa quantità di emissioni di un viaggio in macchina da Roma a Mosca, come chiariscono da AvantGrade.com.
Anche i siti di alcune associazioni e no profit per la tutela dell’ambiente, come già si accennava, non si possono dire campioni di lotta all’inquinamento digitale: il sito del WWF produrrebbe, infatti, oltre il 340% di anidride carbonica in più rispetto alla media e la percentuale si abbassa di poco, al +228%, per le pagine web di Fridays For Future.
Il panorama non è migliore neanche in altri settori merceologici: misurando le emissioni di anidride carbonica prodotte dai siti dei grandi brand dell’energia, dell’agroalimentare, dell’automobilistico i dati rimangono in molte occasioni al di sopra della media. Secondo il «misuratore del web CO2», infatti, i siti di Enel ed Eni Gas e Luce produrrebbero rispettivamente il 133% e l’89% di emissioni di anidride carbonica in più rispetto alla media; quelli di Barilla e Ferrero tra il 129% e il 236% in più; quello di Peugeot il 136% in più, anche se dal settore automobilistico verrebbero segnali incoraggianti, con aziende come Volkswagen che hanno siti web capaci di emettere oltre un quarto di anidride carbonica in meno rispetto alla media o come Tesla per cui l’obiettivo di ridurre l’inquinamento digitale (anche se al momento il sito ufficiale sembra emettere appena il 3% di CO2 in meno rispetto alla media) appare in linea con altre scelte “più green” adottate per il proprio catalogo di vetture in tutta risposta ai trend del mercato automobilistico.
Con lo stesso strumento sono state misurate anche le performance dei siti web di alcune squadre di calcio di serie A, impegnate del resto in questi anni a costruire una presenza digitale più solida e a sfruttare i canali digitali per coinvolgere più e meglio i tifosi, oltre che per comunicare il proprio rebranding .
Mentre quello della Roma sarebbe, così, il sito più virtuoso in termini di emissioni di anidride carbonica, la performance peggiore sarebbe quella del sito dell’Inter.
I fashion brand sono tra i più attenti a ridurre le emissioni di CO2 dei propri siti Internet
Tra i settori più sensibili a ridurre l’impatto ambientale derivato dall’avere un sito Internet ricco di immagini o da cui gli utenti possano fare acquisti e via di questo passo sembrerebbe esserci, infine, la moda. Le fashion firm sono, del resto, da qualche anno tra le più in prima linea quando si tratta di adottare un approccio più green e sostenibile. Rapportato alla questione inquinamento digitale, ciò significa che quando ci si chiede quanta CO2 emettono i siti dei brand di moda la risposta è meno della media, almeno se si considerano grandi brand come Hugo Boss (-31%), Louis Vitton (-40%), Yves Saint Laurent (-48%), Fendi (-74%). Non mancano sicuramente aziende che meno sembrano aver investito nel rendere energeticamente più efficienti i propri siti web: quello di Moncler è responsabile di oltre il 950% di emissioni di anidride carbonica in più rispetto alla media e le percentuali scendono ma solo di poco nel caso di Zegna (+842%) e Givenchy (+780).
Volendo semplificare, ciò che crea inquinamento digitale nel caso dei siti web è la somma della (grande) quantità di energia elettrica necessaria per le comunicazioni tra server ogni volta che viene caricata una pagina, fatta una richiesta a un database o caricato un elemento multimediale, di quella che serve ad alimentare i grandi centri di elaborazione dati a cui già si accennava, ma anche per l’approvvigionamento di acqua nel caso in cui serva raffreddarli.
Quelle buoni abitudini che possono ridurre l’inquinamento digitale
Si tratta di fabbisogni che rimangono (quasi) identici anche a causa di quello che gli utenti comuni fanno online ogni giorno: è per questo che, con la maggior parte delle attività lavorative, educative e di svago che si svolge momentaneamente in remoto per via delle misure di contenimento del contagio da coronavirus adottate dai diversi paesi, quella dell’inquinamento digitale rischia di diventare una vera e propria emergenza (nell’emergenza).
Per provare a contenerne gli effetti, c’è una sorta di «eco-galateo della vita digitale» (così lo chiama Donna Moderna nel n.15 del 25 marzo 2021) che ogni utente dovrebbe rispettare. Si tratta anche in questo caso di pochi, semplici accorgimenti e a suggerirli è ancora una volta AvantGrade.com, nella persona del proprio CEO, Ale Agostini.
Sono accorgimenti come ricordarsi di svuotare periodicamente la propria casella di posta elettronica, dal momento che i messaggi archiviati consumano energia e inquinano quanto o più di viaggiare in auto per diversi chilometri. Per la stessa ragione anche iscriversi solo a newsletter che si intende realmente leggere, per esempio, può aiutare a diminuire il carbon footprint della propria vita online.
Soprattutto su mobile meglio disinstallare le app che non si utilizzano, sia perché indipendentemente dalla frequenza di utilizzo continuano ad aggiornarsi con versioni più recenti e sia perché possono mantenere attivo il GPS, entrambe condizioni che richiedono un costante scambio e traffico di dati. Attenzione anche alle doppie o triple copie dei propri file: rassicurano certo dalla paura che gli stessi vadano perduti o distrutti, ma soprattutto se realizzate in cloud occupano spazio sui server e possono in questo modo inquinare.
Anche videocall e app di messaggistica istantanea che in questi mesi hanno sostituito in un gran numero di occasioni i contatti “dal vivo” con colleghi, compagni di scuola, professori, amici rischiano di far aumentare a dismisura l’inquinamento digitale, con le prime che emetterebbero addirittura da 0.15 a 1 chilo di anidride carbonica in una sola ora. Quando è possibile, per questo, che si tratti di una riunione di lavoro, di una lezione in DAD, del panel di un webinar o di un videoaperitivo tra amici, l’esperto consiglia di disattivare la camera dopo presentazioni e saluti iniziali e quando non si sta parlando.
Per ragioni simili, cioè per limitare la quantità di dati scambiati e il consumo di energia che ne deriva, meglio evitare anche di scambiarsi continuamente in chat foto, video e note vocali (anche queste ultime infatti, sebbene certamente meno dei primi, consumano una buona quantità di dati).
Sui social network, soprattutto quelli che adottano l’auto-play per i contenuti multimediali, l’ideale sarebbe disattivare l’audio o, se possibile, direttamente l’esecuzione automatica degli ultimi, quando si reputa di non essere interessati ai video in cui ci si potrebbe imbattere nel proprio feed. A proposito di scrolling: sia per l’ambiente e sia perché non di rado in questo periodo “stare” sui social si traduce spesso in un continuo doomscrolling di notizie negative, sarebbe da tenere in considerazione che meno tempo sui social significa, più in generale, meno emissioni di CO2.
Se, infine, la pandemia ha cambiato anche i consumi culturali di molti, con più tempo generalmente dedicato a seguire serie o ascoltare musica sui servizi di streaming digitale, meglio saper scendere a compromessi se non si vuole che il proprio intrattenimento digitale sia deleterio per l’ambiente. Netflix, Prime Video e simili permettono di impostare una visione in definizione bassa ed è certo la soluzione “più green” rispetto a una visione in HD. Qualcosa di simile si può fare anche quando si ascolta musica su YouTube o su Spotify. Nell’ultimo caso e più in generale con i servizi per la musica in streaming, se il proprio piano di abbonamento lo permette, si potrebbe optare anche per l’ascolto offline: anche in questo caso la quantità di dati scambiati è minore e minore è, di conseguenza, l’emissione di anidride carbonica.